“Solo di uomini il bosco può morire” di Antonella Cilento (Aboca)

I luoghi, apparentemente, sono spazi fisici. Almeno così ci piace pensare. Di conseguenza li si guarda con occhio a volte curioso, a volte indifferente. Persino, può capitare, che di un particolare luogo ci chiediamo a cosa deve la sua particolare forma, e se ci sono costruzioni o rovine ci interroghiamo sulla sua storia. Ma il nostro sguardo è spesso tanto superficiale da non vedere quasi nulla. E poi i luoghi non sono affatto solo spazi fisici. Basta leggere l’ultimo, bellissimo libro di Antonella Cilento “Solo di uomini il bosco può morire”, Aboca ed.

Aboca è un’azienda che dagli anni 70 si occupa di salute umana attraverso la medicina naturale, a partire dalla coltivazione delle erbe fino alla ricerca e alla editoria. Recentemente ha creato una collana, “Il bosco degli scrittori”, che si ripropone di raccontare il mondo a partire da un albero. Senza gli alberi non potremmo vivere, a loro dovremmo rispetto e gratitudine, ammirazione, anche, per come stanno al mondo e da molto prima della nostra comparsa sul pianeta. Accostarsi a un albero, osservarlo, dovrebbe essere simile a una preghiera, un momento di meditazione e contemplazione. Con questo stesso spirito dovremmo guardare i luoghi. Essere pellegrini, Wanderer romantici (come dice Vito Teti in “La restanza”), sempre in cammino, alla ricerca della casa dell’anima. E non fa differenza se i luoghi sono familiari o estranei, perché ciascuno è sempre anche l’altro, rassicurante e perturbante allo stesso tempo.

In “Solo di uomini il bosco può morire” (il titolo è un verso di “Poema umano” di Danilo Dolci) Antonella Cilento racconta delle sue fughe, insieme al marito Paolo, lontano dal pazzo mondo durante il lockdown per Covid 19. Il suo rifugio, il luogo in cui perdersi per ritrovarsi è mitico e sacro: la Silva Gallinarum, la foresta di Cuma. Quando si arriva in zona, di solito si visitano gli scavi, si cerca l’antro della Sibilla, magari si va alla Casina Vanvitelliana sul Fusaro e di questa foresta a stento ci si accorge.

Ignorata, dimenticata, rigogliosa, sorprendente, che dire ricca di storia è dire poco, è invece davvero il luogo delle meraviglie. Perché non è solo un’area verde protetta. Si tratta di una foresta antichissima, testimone di tutta la nostra Storia. Sul lungo nastro di sabbia che la separa dal mare sbarcarono gli Eubei, portando l’alfabeto, poi Enea, per ascoltare i vaticini della Sibilla, come ci racconta Virgilio, i cui versi l’archeologo Amedeo Maiuri, il padre di Cuma, suo scopritore e protettore, fece scolpire su tabelle esplicative, spesso tanto rovinate da essere illeggibili.

Sullo specchio di mare su cui si affaccia la silva si combatterono battaglie che cambiarono il corso della Storia. Come quella del 474 a.C., cantata da Pindaro (!), che sancì la fine degli Etruschi e dei Persiani. E poi ancora si racconta dei Goti e del Ducato bizantino e dei Normanni e infine delle difese che inutilmente installarono fascisti e nazisti, prevedendo qui lo sbarco che invece ebbe luogo ad Anzio.

Adesso sulla spiaggia ancora corrono i cavalli, ma invece che dalle bighe, al di là dei magnifici gigli di Cuma che fioriscono sulle dune, sono guidati da calessini. E nel bosco trova rifugio umanità varia, dai femminielli in cerca di incontri ai raccoglitori di telline, a degli strampalati Sturmtruppen, ragazzi in tuta mimetica che giocano alla guerra sparando pittura. Molti sono i padroni con i loro cani e poi ci sono i custodi, che raccontano di quando le volpi si catturavano e si mangiavano. Una strada ferrata inutilizzata attraversa il bosco finendo in una stazione fantasma con uno splendido giardino di lavanda e rosmarino.

Il racconto del presente di questo luogo è preciso e impietoso: la plastica, la monnezza, l’incuria e l’abbandono sono protagonisti. Eppure di fronte al turismo di massa che imperversa poco più in là o all’impronta lasciata dall’edilizia turistica sulla costa di Castel Volturno (fino a lì si estendeva la Silva) viene da pensare che il fatto che questa foresta sia ignorata dai più è una benedizione, perché in qualche modo distorto la preserva da più profondi e irreversibili scempi. Sono sopravvissute addirittura delle fantastiche api blu, tipiche del luogo.

Antonella Cilento scrive di questi luoghi con grande sapienza, rimandando non solo alla storia e alla letteratura, come è solita fare, ma al fumetto e al cinema, con anche uno straordinario “montaggio incrociato” di scene dalla foresta contemporanea, coi tanto di animali e umani, e scene dal famosissimo “Rashomon” di Kurosawa Akira, uno dei film più amati.

Il territorio di cui ci racconta è fisico e spirituale, è un territorio in cui si può sparire, sciogliersi, in cui ad ogni passo si posa il piede sul suolo e si affonda in uno spazio in cui coesistono storia, letteratura, cinema, ma soprattutto il mondo esterno e quello interiore, fino a che il confine tra i due si perde, perché ci si rende conto che le due cose coincidono. Che “il nostro corpo è fatto d’ alberi e animali, che noi siamo il cielo, la terra, siamo le api blu della Foresta e il giglio di Cuma”.

Il libro si apre e si chiude con un’immagine potente della nostra transitorietà e inconsapevolezza, che denuncia senza sconti la nostra lontananza dallo spirito del mondo. Ma la strada che porta a ricongiungersi con esso e “vibrare di felicità”, ci ricorda Cilento, è ancora aperta.

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