
Un libro bello, che si legge veramente tutto d’un fiato, o in una notte, se preferite. La scena è città del Messico, i personaggi principali sono tre donne: Laura, l’io narrante, Alina, sua amica storica, Doris, sua vicina di casa. Ma le storie che racconta in questo suo ultimo lavoro Guadalupe Nettel, scrittrice messicana che con “La figlia unica” è al suo quarto romanzo, sono tante, e tutte ruotano intorno a Laura, che le tocca, le guarda, le insegue e le racconta, dando loro forma e sostanza. C’è la storia della sua relazione con la madre, della sua amicizia con Alina, di quella nuova con Doris e suo figlio Nicolàs, la storia di Alina, suo marito Aurelio, la figlia neonata Inès e la bambinaia Marlene. Infine la storia di due piccioni che fanno il nido sulla terrazza della sua nuova casa.
Sappiamo subito che Laura non vuole figli e nemmeno Alina per tanti anni ne ha voluti, tanto che il rifiuto di diventare madri e stravolgere per questo le proprie vite ha nutrito e cementato la loro lunga amicizia. Ma poi qualcosa cambia e Alina vuole un figlio. A tutti i costi.
Tuttavia non è la maternità il tema del libro, anche se ha uno spazio di rilievo. È piuttosto la cura, nelle diverse sue declinazioni, che vediamo dispiegarsi attraverso tutta la storia. La cura è essenziale in ogni relazione e porta con sé, insieme alla gioia della confidenza e della vicinanza, l’insostenibilità del legame e della perdita della libertà, la gelosia, la paura dell’abbandono e il desiderio di controllo, insomma tutte le sofferenze e le difficoltà che ogni amore genera. Eppure darsi all’altro è per tutti noi una necessità, tanto che ogni determinazione di solitudine e indipendenza, poi, trova un suo limite, una sua soluzione, in nuove relazioni.
“Se non te ne vai di casa soffochi, se vai troppo lontano ti manca l’ossigeno”, dice Laura, citando Vivian Gornick (giornalista e saggista femminista americana), a proposito del rapporto con la madre.
E poi, parlando del parassitismo negli uccelli, fa dire a un personaggio: “Penso che a un certo punto tutte noi madri ci rendiamo conto di questa cosa: abbiamo i figli che abbiamo, non quelli che immaginavamo o quelli che ci sarebbe piaciuto avere, ed è con loro che dobbiamo fare i conti”.
Il rapporto madre-figlia/o è complesso, vi si intrecciano tanti fili e niente è in realtà scontato, come sembra credere la sottocultura dominante che ci circonda, anzi che ci accerchia. Alina e Aurelio si trovano ad affrontare una tragica realtà, completamente inaspettata, e inaspettate sono le energie, le gioie e gli ostacoli che troveranno sul loro percorso.
“La figlia unica” ci mostra l’ineluttabilità della relazione negli esseri umani insieme alla conflittualità interiore che produce. Al di là delle nostre idee, della volontà o non volontà, dei dolori che segnano le nostre esperienze di vita, la relazione con gli altri esseri umani ci è indispensabile. Può trascorrere un tempo anche lungo in cui ci sembra di poterne fare a meno, ma poi, con la forza di una marea, ci ritroviamo a legarci a qualcuno, o ad accorgerci di non riuscire a disinteressarci del tutto di qualcun altro.
Sullo sfondo una società messicana divisa tra poveri e classe media, a cui appartengono le protagoniste, che, se hanno difficoltà economiche, possono combattere e farcela. L’io narrante è persona colta (legge Primo Levi e Mircea Cartarescu) e le sue amiche, anche se con sacrificio, possono permettersi baby-sitter, medici, case. Ma non ignorano di essere privilegiate rispetto a una massa impoverita che vive nelle favelas, non riesce ad avere una vita decente e nemmeno a curare i figli.
La scrittura di Nettel è piana, semplice, diretta. Racconta fatti: descrive le giornate, la routine di fare un bucato o la spesa, il cantare una canzone, una conversazione telefonica, una visita dal dottore. Una scrittura nitida, che ha lo splendore delle parole essenziali. Il racconto cattura il lettore, i personaggi penetrano sotto pelle e alla fine, quando la lettura si chiude, ci si sente, come con le buone letture, di avere allargato il proprio orizzonte, di avere aggiunto una tessera al mosaico della propria esperienza. Una maggiore disponibilità, perfino, ad accettare l’imperfezione e le difficoltà delle relazioni e delle nostre vite che, in definitiva, come l’autrice fa dire ad Alina, vanno come devono andare.
Rispondi