Sembra che darsele di santa ragione per strada, divisi in bande, sia il nuovo passatempo di molti adolescenti. Perché? E cosa possiamo fare?
Nel video-articolo che riportiamo si riferisce di uno dei primi episodi di rissa in strada tra adolescenti. Si dà molta importanza alla violazione delle norme anti Covid da parte dei ragazzi, che si riuniscono in grandi assembramenti e non portano nemmeno le mascherine. Inoltre si parla del fatto come di un episodio, e degli scontri fisici come della conseguenza di vecchi dissapori tra due gruppi di adolescenti. Ma successivamente risse del genere si sono ripetute a Venezia, Milano, Gallarate e ancora Roma, quindi, forse, possiamo parlare di fenomeno. I giovani si danno appuntamento tramite social allo scopo di scontrarsi, molti vi si recano per assistere allo scontro, e sono divisi in gruppi, in bande. In questi giorni non si registrano nuovi episodi, ma è anche vero che in tutta Italia la Polizia ha alzato la guardia per evitare il ripetersi di situazioni simili.
Purtroppo dobbiamo dire che la cosa non ci meraviglia: da anni il grido di allarme che lanciamo sulla mancanza di un progetto educativo, di una visione complessiva dell’educazione dei giovani resta inascoltato. La nostra società è diventata un insieme affollato di esseri umani che obbediscono a logiche individuali e individualistiche, asservite al profitto e alla crescita del PIL, un insieme disgregato, in cui si affannano piccole realtà, come noi de “La Principessa Azzurra” che lavorano in senso contrario, per creare solidarietà, inclusione, opportunità educative e sociali. Eppure oggi si hanno tutti gli strumenti per capire l’origine di questi problemi e combatterli alla radice, ma niente si fa. La responsabilità è politica, intendendo con questo che è una responsabilità collettiva e dipende dalla visione d’insieme della società, o dalla sua assenza in questo caso.
L’adolescenza è un difficile momento di passaggio, dall’infanzia all’età adulta, questo lo sanno tutti. Ma come avviene questo passaggio e perché è difficile?
Il passaggio avviene attraverso il distacco dalla famiglia e l’inizio del processo di autoidentificazione. In questa situazione gioca un ruolo fondamentale l’appartenenza a un gruppo. Non c’è adolescente che non viva questo problema, a volte in maniera angosciante: a quale gruppo unirsi? I bravi a scuola (e poi diranno che sono un nerd)? I fighetti con gli abiti firmati (me lo posso permettere)? Gli alternativi (e se si drogano che faccio)? E poi c’è sempre il rischio che quelli che più ti piacciono non ti accettino, perché mica è facile. I gruppi hanno quasi sempre struttura gerarchica, c’è molta competizione e non pochi ragazzi finiscono per trovarsi nella situazione peggiore che si possa immaginare: nessuno ti vuole. O almeno così ti sembra. Allora magari ripieghi su un’amica/o del cuore o peggio resti sola/o, e gli altri, a meno di eccezioni, ti vedranno (e tu vedrai te stessa/o) come una/o sfigata/o. Ovviamente il processo di auto-identificazione è legato anche al gruppo cui si sceglie/si riesce di appartenere.
Ora deve essere chiaro che noi esseri umani, quasi sempre, per stare bene dobbiamo sentire di appartenere a un gruppo (basta anche la famiglia), ma nell’adolescenza questo elemento è di primaria importanza ed è un momento in cui il gruppo non può essere la famiglia, perché da lì bisogna staccarsi per auto-identificarsi. E allora?
Questo passaggio della vita nella società contemporanea si è molto “allungato”. Prima si passava molto più bruscamente dall’infanzia all’età adulta con relativa assunzione di ruoli. Inoltre dal secondo dopoguerra fino agli anni 80 c’erano tante realtà che rispondevano a questi bisogni: dalle parrocchie ai gruppi politici. Molti giovani erano appassionati di musica e formavano band musicali, molti si impegnavano nel sociale. Poi la parcellizzazione e la disintegrazione del tessuto sociale, conseguenza dell’affermazione del neoliberismo, hanno avuto la meglio e queste realtà, che ancora esistono, non raccolgono più la maggioranza dei giovani.
L’assenza di un’ “offerta socializzante” porta i giovani a rispondere al bisogno di gregarietà riunendosi sulla base di bisogni primari e grezzi. Uno di questi è il bisogno della sfida. Da sempre l’adolescente, poco consapevole del valore della propria vita (gli adolescenti la rischiano e, purtroppo a volte se la tolgono, in maniera più “spensierata” rispetto agli adulti perché ne hanno una percezione diversa), cerca la sfida perché nel processo di auto-identificazione una cosa importante è capire il proprio limite: fin dove posso arrivare. Il limite ci dice qualcosa di importantissimo su noi stessi.
Facciamo a chi è l’ultimo a correre via dai binari (col treno in arrivo)? Facciamo a chi è più veloce in moto? Vuoi vedere che faccio la curva a fari spenti? ecc. ecc. In queste dinamiche si inserisce anche il desiderio di sentirsi “uomo”, di dimostrare alle ragazze di esserlo più dei compagni, in una visione distorta del proprio essere sessuato.
(E poi di chi è la responsabilità se i ragazzi pensano alla virilità in questi termini è facile dire: siamo bombardati dalla sottocultura maschilista e patriarcale).
E le ragazze? Partecipano, ovviamente, o come spettatrici ( è l’unico ruolo che spetta loro in questo schifo di sottocultura), oppure si picchiano emulando i picchiatori seri, cioè i maschi (quanti vecchi film abbiamo visto in cui le donne si picchiano e gli uomini guardano e ridono? Adesso si producono molti film con personaggi femminili che fanno a botte ” come un uomo”, in un’ulteriore distorsione concettuale della parità).
Solo in piccola parte questi bisogni degli adolescenti sono assorbiti dallo sport. L’atletica, il nuoto, il ciclismo e tanti altri sport sono annientati dal predominio del calcio, con la sua esasperata competitività esaltata da un linguaggio “bellico”, che sfocia ormai quotidianamente nel razzismo, non solo territoriale (che poi è un male assoluto, come il razzismo etnico). Sia chiaro non dipende dal tipo di gioco, ma dal ruolo che gli si dà e da come i mass-media propongono le sfide calcistiche.
In definitiva se ci si guarda intorno le occasioni di gruppi che aiutino positivamente il processo di auto-identificazione sono molto scarse. Tuttavia esistono e, forse, chi può fare qualcosa sono i genitori: consapevoli del bisogno di appartenenza a un gruppo e della necessità del distacco dalla famiglia, possono sorvegliare che questo avvenga in contesti positivi, aiutare il distacco in favore di gruppi che esprimano valori solidali non maschilisti (pericolosi anche per i maschi), non sottovalutare le difficoltà di inserimento ecc.
E la scuola? Anche la scuola può molto attraverso insegnanti in grado di stimolare la crescita del gruppo classe in modo positivo e autonomo dall’insegnate stesso, ma non è facile. E poi e poi…nella scuola avremmo tanto bisogno di figure maschili non maschiliste, ma la professione è bistrattata da decenni, non più appetibile come ruolo sociale e per i livelli stipendiali, e quindi gli uomini, potendo, scelgono altro.
E voi cosa ne pensate?
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