Cosa cambia nell’insegnamento quando cambia il setting? Nuova Secondaria pubblica le riflessioni di Anna Maria Simonelli sulla DAD

Nello scorso marzo l’emergenza Covid è entrata come una bufera nella vita di tutti noi. Le scuole sono state chiuse all’improvviso, prima per una settimana, poi per due, poi fino a data da destinarsi. E mentre docenti, studenti e genitori cercavano di capire come fare per mantenere in piedi la propria quotidianità e il proprio lavoro la DAD, la didattica a distanza, si è introdotta nella quotidianità di tutti e l’ha fatta da padrona. C’ è stato chi l’ha vista come la panacea e chi come l’origine di tutti i mali. 

Condividiamo qui la riflessione attenta e approfondita sull’esperienza fatta della nostra Anna Maria Simonelli, che è stata pubblicata su “Nuova Secondaria“.

Durante il lockdown, scrive Simonelli, “dall’aula, studentesse, studenti e insegnanti hanno “traslocato”, da casa “fanno scuola”.”

L’insegnamento da secoli aveva luogo nell’aula, un setting neutro, vuoto, “un non luogo che veniva trasformato in altro dall’insegnante, da ciò che egli pensava dovesse essere la scuola, dalla sua opinione su di essa.

Adesso il setting era diventato la cucina, il salotto, il divano. Cosa era cambiato? Come poteva, se poteva, dispiegarsi l’eros pedagogico? E qual è il ruolo del contesto nella didattica? E nella relazione educativa?

Leggetelo nel bell’articolo di Simonelli!

 

Oggi, ai tempi del Covid-19

 

Anna Maria Simonelli

 

Il testo racconta l’insolita esperienza professionale della didattica a distanza, imposta dalla pandemia, a confronto con la didattica in presenza, modalità che ha rappresentato da sempre l’insegnamento dell’autrice. Occasione per cogliere a fondo la portata ed il significato della ‘presenza’ e i cambiamenti che confusamente si delineano nell’orizzonte che verrà.

 

The essay accounts for the unusual professional experience of distance teaching, imposed by the pandemic, compared to face-to-face teaching,  which  has  always  been  the  author’s  way  of  teaching.  An opportunity  to  fully  grasp  the  importance  and  significance  of  “presence”  in teaching and  the   changes that are confusingly outlined in the upcoming horizon.

 

 

Parole chiave

Didattica a distanza; didattica “faccia a faccia”; la “presenza’”nell’insegnamento; l’eros pedagogico; l’insegnante mediatore dei media

 

Keywords

Distance teaching; face-to-face teaching; “presence” in teaching; educational eros; teacher as media mediator

 

 

La DAD è così, studentesse e studenti entrano nella piattaforma, selezionano join a meeting, inseriscono il codice e, man mano che arrivano, dopo l’admit, appaiono tutti sull’interfaccia. Non più la campanella, ma è un post, un link che ricorda l’inizio della lezione. Il coronavirus, o anche detto Covid-19, il distanziamento sociale, il lockdown, ha rivoluzionato la vita e anche la scuola: dall’aula, studentesse, studenti e insegnanti hanno “traslocato”, da casa “fanno scuola”. In cucina, in soggiorno, nella propria cameretta, nello studiolo, dal computer, dal cellulare, dal tablet, si entra in piattaforma e in tanti piccoli schermi, tutti lì, pronti in prima fila si aprono e chiudono cartelle, file di ipertesti, PowerPoint, mappe concettuali, schemi, alternandoli a libri, quaderni e fogli sparsi sulle scrivanie, in terra, sul letto, sul divano.

E’ da un po’ che la scuola non è l’unico luogo dove si acquisisce conoscenza e oggi sembra esserlo meno di ieri. Per gli studenti di ogni età e di ogni livello scolastico, le opportunità e gli stimoli cognitivi si sono nel tempo moltiplicati e diversificati: cinema, televisione, giornali, radio trasmettono una miriade di informazioni, transitorie e dubbie, che necessitano di relazioni significative per una continua messa in discussione, in una contrattazione e ri-contrattazione senza sosta che soddisfi il bisogno di conferme, che li rassicuri e solleciti capacità critiche. Poi internet, le nuove tecnologie della comunicazione in rete: email, video-conferenze, web, blogs wikis, YouTube, Twitter e WhatsApp. La scuola in videolezioni.

 

 

 

1.   Com’era prima

 

Il luogo dove si educava e formava attraverso i “Saperi”, lo spazio fisico dell’aula, era rimasto uguale da secoli fino al 5 marzo 2020: cattedra, lavagna, addossati a una parete e di fronte tanti banchi allineati in più file verticali e orizzontali… ultime novità la LIM e il PC. Un tempo scandito, un luogo neutro e freddo, un non luogo che veniva trasformato in altro dall’insegnante, da ciò che egli pensava dovesse essere la scuola, dalla sua opinione su di essa. Alcuni si impegnavano con rigore nell’affermare il loro potere, ovvero lo status conferitogli dal Ministero e dalla conoscenza della loro disciplina, sugli allievi ignoranti, riottosi o  acquiescenti, ma comunque, come scrive Morin, teste vuote da riempire con le loro lezioni, convinti che i concetti bastava trasmetterli perché loro li imparassero o, per altri, lo avrebbero fatto, secondo le capacità che essi avevano, rinunciando così a farsene responsabili. In breve, lavandosene le mani e lasciandoli da soli. Poi, quando la LIM connessa al computer si è affiancata o ha sostituito la lavagna, la funzione della prima è rimasta la stessa della seconda: vi scrivevano espressioni algebriche, disegnavano un triangolo, una frase, certo non più con il gesso, ma con il dispositivo touch screen mediante le dita o un pennarello; oppure andando a pescare in rete un testo, un’immagine, giusto per non farne fotocopie, l’insegnante spiegava cosa fosse, senza feedback. E banchi e posti assegnati ai ragazzi sempre uguali dall’inizio alla fine dell’anno. A casa, da soli, per i compiti assegnati, il computer veniva utilizzato per le ricerche, non si andava più a consultare l’enciclopedia, niente più riassunti affiancati da immagini ritagliate e incollate sul quaderno o sul foglio protocollo, ma su Google si trovava di tutto, un semplice copia incolla, e voilà il compito era pronto. E così, quel non luogo rimaneva imbrigliato solo in un’etichetta: la 1C, la 3B.

Questi insegnanti convivevano con altri che abitavano quel luogo neutro, impegnati  in un  corpo a corpo, in una reciprocità complementare, in una babele di codici linguistici  appartenenti a segnali verbali e non verbali, a capacità, potenzialità, conoscenze pregresse; fungevano da sceneggiatori e registi tra i concetti disciplinari, il Sapere, e le studentesse e gli studenti, per costruire insieme un ambiente di apprendimento che si affollava di storie raccontate, di emozioni e sentimenti in azioni individuali e/o di gruppo di scoperta, analisi, riflessione, negoziazione e riconsiderazione, cercando di favorire produzione di senso e, al postutto, costruzione intenzionale della conoscenza. Tutto ciò per guidare l’azione insostituibile delle studentesse e degli studenti verso l’apprendimento, certo condizionandolo, ma per facilitarlo. Trasformandolo così lo spazio fisico dell’aula in un luogo loro, vivo e attivo, in cui ciascuna allieva e ciascun allievo, seppur resistente al potere educativo del docente, assumeva un ruolo responsabile, di promozione dell’autonomia personale: per apprendere ad apprendere. Le posizioni dei banchi e i posti a sedere cambiavano: organizzazione in circolo, laddove si rendeva necessario il gruppo classe su come apprendere; oppure sulle dinamiche di ciò che il gruppo avrebbe potuto procurare, la collaborazione ma anche l’esclusione e la manipolazione. Banchi accostati per accogliere 4 o 5 studenti e iniziare attività di sviluppo di abilità sociali e per potenziare l’apprendimento. E’ qui che poco per volta acquisivano il senso civico, vale a dire il rispetto degli altri, comportamenti, atteggiamenti, fiducia, responsabilità e

 

 

 

corresponsabilità. Poi la LIM, un nuovo strumento con cui entrare in gioco, una tecnologia multi-mediale, una superficie interattiva facilitava la scoperta e la costruzione di concetti: testi, immagini, filmati, animazioni, suoni erano spunto, possibilità di analizzarli dai loro diversi punti di vista e di manipolarli ricostruendoli in nuovi formati.

 

 

2.   L’eros in classe

 

Già l’appello in classe era indispensabile: l’insegnante entrava in classe, mentre li guardava tutti, si sedeva, sistemava le cose sulla cattedra, entrava in contatto con la classe: era in 1ª C; ma poi, quando si faceva l’appello e li si chiamava uno per uno, ci si prendeva il tempo di entrare in contatto con ciascuno di loro. Ci si esprimeva anche con la mimica del volto, la gestualità del corpo, il suono della voce. Il movimento, le posizioni, gli atteggiamenti che assumevano, la voce, il timbro, nelle sue diverse modulazioni di toni e ritmi mostravano, più delle parole, l’unicità di chi le esprimeva: rivelavano i loro pensieri, le loro intenzioni. E così all’appello guardandoli, eccoli aggrottare le sopracciglia, sollevare le spalle, abbozzare un sorriso o un broncio; i loro occhi esprimevano vivacità, o a volte erano persi nel vuoto, le loro gambe dondolavano sotto i banchi, o incrociavano le braccia, chinavano la testa sul banco. Anche così stavano comunicando qualcosa. Nel tempo, dopo aver imparato tutti i loro cognomi, e capitava di fare l’appello con il capo chino sul registro, da un semplice: presente, ci sono, eccomi, sono qui, eccolo, si!, uhm, li si riconosceva, si era in grado di distinguere dal suono della voce S. da E., e dal tono si riusciva a percepire anche che giornata era per ognuno di loro. L’ascolto era un gioco di suoni, di gesti, di sguardi. Poi si spintonavano, si strattonavano, si sorridevano, si confortavano con un abbraccio e si stringevano la mano, esprimevano le loro emozioni, i loro sentimenti. Quando l’insegnante spiegando passava tra i banchi e toccava la spalla a qualcuno  di loro, senza dirgli nulla, per richiamarlo all’attenzione e partecipazione, invece che tentare di distrarre il compagno di banco, quel tocco leggero era sollecitudine, lo studente lo sentiva. E quando, mentre si spiegava, si intravedeva lo sguardo perso di uno di loro perché non riusciva a seguire ciò che si diceva e ci si piegava sulle ginocchia per essere alla sua altezza anche con il corpo, lo studente sentiva la cura che si aveva per lui.

Già Platone nel Simposio considera la funzione pedagogica come erotica, intrisa di passione, guida di chi la esercita per trasmettere ad altri l’opera del pensiero creata dal desiderio di chi le ha dato vita, non tanto per gli obiettivi da raggiungere, ma perché funga da riferimento nelle azioni, per migliorare e maturare in continuazione. Forse si trasmetteva innanzitutto quello che si era, la voce, un gesto, un modo di essere e sentirsi donna, nell’interezza del proprio essere, e non solo quello che si diceva o si sapeva, condividendo la tesi saussuriana1 secondo cui il significato delle parole va cercato in chi parla anziché nell’argomento di cui si parla.

L’eros pedagogico non è sessuale, ma è certamente sessuato perché insegnanti sono donne e uomini, anche se le prime, per motivi culturali e sociali, sono la maggioranza. C’è differenza tra un’insegnante che insegna in una classe tutta maschile, mista o tutta al femminile, o se ad

 

1 F. De Saussure, Corso di Linguistica generale (1916), a cura di De Mauro, Laterza, Roma-Bari 2009.

 

 

 

esserlo è un insegnante. La relazione pedagogica cambia. Sul sentire i sentimenti si è differenti, nei legami si seguono logiche diverse, si agisce per connessioni e ordini che si rivelano dissimili, ineguali. Per esprimere un pensiero, si usano le stesse parole della lingua di appartenenza, ma non si dicono le stesse cose. Essi hanno linguaggi diversi, nel parlato, nel non verbale come nello scritto, nel formale come nell’informale. Come riconosce la Scuola di Psicologia Storico-Sociale di Vygotskij2: il significato di un concetto è connotato dal complesso degli eventi psicologici ed emozionali che hanno costituito il contesto in cui si è verificata l’azione.

La Scuola è presenza fisica! La conoscenza è incarnata, personificata, densa di sentimenti, teatralizzata istrionescamente o melodrammaticamente con il tono di voce, di gesti, di movimento, suscita invidia e sfida di possedere quel Sapere. L’eros pedagogico è questa tensione d’amore, caratterizza la relazione educativa rivolta alla conquista di traguardi intellettuali, serve tanto quanto quello meramente teorico. E’ in questa reciprocità anche emotiva che si preclude un apprendimento condizionato dalla posizione di forza dell’insegnante per essere il detentore del Sapere. E così rimane presente in ciò che si è diventati, in ciò che si impara ogni giorno, non certo come una pura ripetizione, un dogma acritico, arido e costituito3.

 

 

3.   La differenza che opera la differenza

 

Come Gregory Bateson ha affermato con assoluta chiarezza: è il contesto che si evolve4. Esso è una struttura relazionale interattiva in cui si dà significato a parole e oggetti attivando il pensiero, conoscenza ed emotività, insieme. Il contesto prima delle nostre azioni non c’è, lo si costruisce e lo si trasforma interagendo; non è una cornice dentro la quale c’è un dipinto, matita, carboncino, pennelli, colori, luce, aria. Esso è un’idea, il frutto di una trasformazione i cui elementi costituiscono il contesto stesso.

Andare fisicamente a scuola, spostarsi da un luogo privato, la propria casa, per recarsi in un luogo pubblico, la scuola, quindi passare da un luogo certo per essere immessi in un orizzonte incerto e indeterminato, può favorire la crescita e la trasformazione, ma non può essere vero  che ciò accada con la didattica a distanza, ovvero tra due luoghi privati, senza spostamento fisico. A casa, e il docente, e le studentesse e gli studenti sono diversi da come possono essere a scuola, perché sono tra le proprie cose che parlano della loro interiorità, del loro vissuto. Del proprio privato, adulti e giovani, spesso si vergognano, oppure ne hanno pudore, ne sono gelosi, potrebbe rivelare qualcosa di sé che non desiderano condividere. Davanti a uno schermo spogliarsi degli status che qui si ricoprono, per gli insegnanti quelli di moglie, marito, compagna/o, figlia/o, e per gli studenti quelli di figlio, fratello, sorella, nipote é difficile e faticoso, e la mediazione didattica può venire meno e tradursi in un maternage. Il potere dell’insegnante, lo status derivante dalla conoscenza della propria disciplina di cui si parlava, declinato in modalità telematica dall’emergenza sanitaria, rischia di venire contaminato per non

 

2 Lev S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio (1934), a cura di Luciano Mecacci, Laterza, Roma-Bari 1998.

3 R. Massa, Le tecniche e i corpi verso una scienza dell’educazione, Medialibri Diffusione SRL, Roma 2004.

4 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, p. 191.

 

 

 

essere lì, nel luogo fisico che da sempre lo legittima. La propria casa ha una forte valenza emotiva che influenza gli atteggiamenti, le relazioni e le emozioni. E’ la propria pelle, non è un luogo neutro da trasformare e costruire insieme, come neanche lo sono le case dei ragazzi.. Il contesto fa testo: presenza e distanza fanno la differenza, possono e magari devono convivere. Ma è la distanza che deve integrarsi alla presenza, subordinandosi ad essa.

 

La ricerca di una quindicina di anni fa dell’équipe coordinata da Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese5 rivelò l’esistenza di neuroni specchio. Essa palesava che non vediamo solo col cervello visivo ma anche con quello motorio, e che la condivisione degli stati emotivi dell’altro passano attraverso la comprensione delle azioni che compie. Il corpo a corpo a scuola tra docenti e studentesse/i è ciò che accade tra i loro corpi, l’apprendere e l’insegnare passano anche da lì, dalle azioni frutto dell’adattamento procurato dall’interazione tra loro: per insegnare devi osservare come l’alunno impara, per apprendere ad apprendere devi osservare come l’insegnante insegna.

In modalità sincrona, cioè in tempo reale, quindi in presenza online, la fatica di Sisifo dell’insegnante e quella degli studenti aumenta per il timore di non arrivare all’altro, perché devono supplire alla mancanza dei loro corpi solo con la voce, semmai modulandola nei toni, oppure solo alzandoli. Un parlato che non incorpora pensieri, sentimenti, movimenti, gestione degli spazi, aumenta il timore di non arrivare all’altro. I segnali non verbali hanno un ruolo determinante nel costruire la fiducia nel contesto. La loro mancanza può amplificare, ma anche ridurre l’attenzione all’altro, la cura e la sollecitudine dell’insegnante verso gli studenti, e l’attenzione di questi ultimi verso il primo, può rafforzare ma anche indebolire e rendere meno autentico il legame. La DAD è altro, è diversa, è un altro contesto, è un ambito di apprendimento che può integrare la Scuola, fungerle da complemento, non di più, né di meno. Una recentissima ricerca pubblicata dal National Geographic, “ZOOM fatigue6, sembra confermare e attribuire rilevanza scientifica alla voce che gira tra il corpo docente – ricorsivo anche nel linguaggio burocratico-istituzionale –, della presenza di una forte stanchezza al termine di una videolezione su ZOOM, ma anche su Google Hangouts, Skype, FaceTime o qualsiasi altra interfaccia di videochiamata. Ulteriore fatica di Sisifo dovuta alla maggiore emissione di parole, per il sentirsi costretto e vedere tutto in un piccolo schermo. La ricerca sottolinea come le interazioni virtuali possono essere estremamente difficili per il cervello che deve concentrarsi per la maggior parte sulle parole pronunciate, venendo meno la possibilità dei segnali non verbali: si è inquadrati solo dalle spalle in su, venendo così eliminata la possibilità di vedere i gesti delle mani o degli altri linguaggi del corpo. Poi, se la qualità del video è anche scadente, ogni speranza di aggiungere qualcosa dalle minuscole espressioni facciali è disattesa. La vista della galleria, in cui tutti i partecipanti alla riunione appaiono, costringe il cervello sopraffatto a decodificarli contemporaneamente, così che alla fine nessuno lo è in modo significativo, con l’aggravante che il solo contatto visivo, tenuto troppo a lungo su una/uno di

 

5 G. Rizzolatti – C. Sinigaglia, So quel che fai, Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006.

6https://www.nationalgeographic.com/science/2020/04/coronavirus-zoom-fatigue-is-taxing-the-brain-here-is-why-that-

happens/ 26-04-2020

 

 

 

essi, può apparire minaccioso o eccessivamente intimo. Dunque, un lavoro in multitasking, impegnati a passare velocemente e di continuo da un piccolo schermo all’altro nega la concentrazione su qualcosa, qualcuna/o in particolare, provocando una grande stanchezza. I ricercatori ipotizzano che la fatica di ZOOM possa diminuire una volta che le persone abbiano imparato a navigare nel groviglio mentale che le video call possono causare e suggeriscono di uscire dalla piattaforma se ci si sente troppo stimolati. Si può mai lasciare una videolezione sincrona, vuoi che si sia docente o alunni, giustificandosi per la stanchezza sentita? No.

E poi, dell’insegnamento online, si avvantaggiano gli studenti più esperti a usare la tecnologia e più motivati grazie alla provenienza familiare, mentre si tende a dimenticare quelli le cui famiglie, non avendone la possibilità economica, mancano di tablet e computer oppure di una sufficiente copertura di internet; ma soprattutto rinunciano gli studenti con disabilità e disturbi dell’apprendimento, insieme a quelli che si nascondono oscurando il video, togliendo l’audio per evitare la relazione e la fatica che essa comporta. Diventano ancora più invisibili, la dispersione aumenta, inclusi-digitali vs esclusi-digitali7. L’art. 34 della Costituzione Italiana e  la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo disattesi, divario socio-economico e sociale della popolazione assicurato e incrementato.

 

 

4.   DAD sì, DAD no, DAD ni: Covid-19 docebit

 

Il Covid-19 e la DAD: una fatica inverosimile, emotiva, fisica e mentale. Eccoci a metà anno scolastico catapultati nell’insegnamento a “distanza”, la presenza dei corpi sostituita da schermi che proiettano mezzi busti sfocati e voci metalliche. Se alcuni docenti hanno improvvisato, per altri è stato meno traumatico per aver ormai da anni incluso nella propria valigetta degli attrezzi anche le tecnologie informatizzate, manchevoli solo della videolezione sincrona e asincrona. Tra i docenti, nei singoli consigli di classe, nelle scuole secondarie, un’iniziale disorganizzazione: chat con gli studenti e/o email per assegnare compiti e inviare materiale? Piattaforme online? Quali? Fare lezione? Come? Quando? Tutto ciò anche dettato dalla differente competenza tecnologica tra coloro che non ne avevano alcuna o non abbastanza. Sembrerebbe urgente l’attivazione di corsi di formazione all’uso delle tecnologie: la maggior parte delle resistenze, opposizioni e frustrazioni vissute, conscie o inconscie che siano state, forse sono nate dalla mancanza di un equipaggiamento che avrebbe in parte alleviato quella sorta di spiazzamento di fronte a un cambiamento repentino, personale e collettivo.

Poi studentesse e studenti: inizialmente più che di insegnamento, si è trattato di interventi che li sostenessero emotivamente, erano spaventati e spiazzati, bisognosi di raccontare ad un adulto che li rassicurasse le paure che si ammalassero o morissero i genitori e/o i nonni, con i quali la maggior parte di essi trascorre i pomeriggi quando i primi lavorano. Ma ci sono stati alcuni studenti che hanno raccontato di essere addirittura felici: finalmente la famiglia era riunita, genitori a casa e non al lavoro, fratelli e sorelle con i quali giocare, non impegnati nella scuola

 

7 https://www.agendadigitale.eu/infrastrutture/il-digital-divide-culturale-e-una-nuova-discriminazione-sociale/

13-05-2020

 

 

 

e/o al lavoro. Poi, nel tempo, in una situazione di affidamento, hanno recuperato una certa tranquillità e l’attività didattica ha ripreso anche se molto rallentata perché, seppure nati nell’era digitale, hanno dimostrato pochissima dimestichezza con la tecnologia, penalizzando così lo studio e la ricerca di informazioni e la possibilità di lavorare in rete con i compagni e il docente, manifestando inizialmente poca responsabilità nella gestione del proprio apprendimento per farne solo un uso ludico di chat con i compagni e trascorrendo ore con i videogiochi, in piattaforme social come Istagram o Tik Tok. L’ora a disposizione era sempre come in aula un mix di lezione e studio, ma unica, per la scelta della scuola di dimezzare le ore curricolari di ogni disciplina per non lasciarli per sei/sette ore al giorno innanzi a uno schermo, quindi il dispiacere di non poter incidere di più e la preoccupazione per il prossimo anno scolastico. E allora continui scambi individuali di email, tra docente e studenti, e studenti tra loro (solo se tecnologicamente equipaggiati), a tutte le ore del pomeriggio e sera, sempre in prossimità della videolezione, con allegati il lavoro in progress assegnato, per richieste di suggerimenti nel caso di difficoltà a proseguire, di suggerimenti per dubbi e/o incomprensione del libro di testo o materiale di approfondimento allegato nell’archivio del registro elettronico, oppure per non  aver capito la richiesta del compito da svolgere. Il tutto accompagnato dal suono di WhatsApp per avvisare del loro arrivo in entrata e in uscita. Laboratorio in aula, laboratorio in rete.

E’ stata un’esperienza certamente intensa e gravosa, ma utile, ricca di stimoli per cambiare e/o intensificare alcune modalità didattiche e la distribuzione del tempo, in particolar modo per essere il numero degli studenti molto ridotto (da 26 in presenza si è arrivati ad averne un massimo di 13 a distanza), dedicandone ancora di più alla comprensione di un testo, l’assetto del quale, a una lettura distratta, superficiale o elitaria, a volte ha ingannato anche gli insegnanti oltre che gli studenti, e per la mancanza del corpo che fornisce con la postura, i gesti, il tono, e il ritmo della voce, la chiave per cogliere ciò che è presente tra le righe.

Ancora, i genitori le cui categorie sono sembrate ancora più eterogenee per qualità e quantità: partecipi, assenti, iperprotettivi, ingerenti. Questi ultimi hanno addirittura interferito con suggerimenti durante le interrogazioni.

Infine, i dirigenti scolastici: latitanti, presenti ma autoritari, oppure guide autorevoli, insomma tutto nella norma, di tutto un po’.

Didattica in presenza e a distanza, hanno caratteristiche ed elementi diversi, non possono, quindi, che creare contesti svariati. E, nell’impossibilità di svolgere la prima, la seconda può ritenersi utile sempre che si intensificherebbe l’utilizzo di mediatori iconici, che per non pochi insegnanti rimangono ancora isole sconosciute. Sì, questa esperienza potrebbe aiutare a far passare maggiormente l’idea che l’insegnamento e l’apprendimento sono attività di ricerca dove l’insegnante media tra gli studenti e i Saperi, utilizzando tutti gli strumenti tecnologici utili alla ricostruzione del mondo, agendo da mediatore: non più solo del Sapere in quanto tale, ma come “mediatore dei media”.

Sicuramente, alla riapertura delle scuole nel prossimo settembre, sarà necessaria una urgente riflessione su quale possa essere una “effettiva” DAD. Anche se, a dire il vero, la riflessione sulla DAD dovrebbe già essere partita, tre mesi di esercizio non sono pochi, a settembre bisognerebbe essere pronti a ricominciare. Coronavirus no, sì o ni, converrebbe avere le idee

 

 

 

chiare. All’inizio di questa esperienza c’è stata tanta comprensibile confusione da parte di tutte le componenti scolastiche, anche perché aggravate e condizionate dal vissuto personale, dal carico emotivo della paura per la propria vita e per i propri cari, che non è cosa da poco.

Per il prossimo anno Covid-19 docebit. Nel mentre si può solo fare riferimento alla propria e all’altrui esperienza e ipotizzare una riorganizzazione complessiva.

Certo è che quando il termine “Didattica a distanza”, poi DAD, è venuto alla luce, per etichettare l’attività emergenziale che ci si apprestava a svolgere, ha provocato una sorta di orticaria. Che contraddizione in termini, un ossimoro! L’attività didattica avvicina, conduce a  sé studenti, docente, concetti disciplinari, risorse e strumenti, non distanzia.

 

Anna Maria Simonelli Docente della scuola secondaria di II grad

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