
“Come si fa a dire a sé stessa di aver amato il male?”, è questa la domanda delle domande, la pietra d’inciampo, l’abisso che non si vuole vedere. Le protagoniste de “Le Pentite” di Francesca G. Marone (Les Flaneurs edizioni) arrivano a formularla e riescono anche ad elaborarla, ma solo dopo un percorso lungo quasi una vita. E bisogna dire che a volte non ci si arriva affatto. Sono le donne, per lo più, a cadere nella velenosa tela di ragno dell’amore “malato”, cioè dell’amore per un uomo che fa del proprio potere sull’altro, dell’esercizio crudele della propria “forza” psicologica la ragione e il senso della relazione sentimentale.
Le storie di Federica e Maria, entrambe intrappolate dall’amore per lo stesso uomo violento, il Lupo, si intrecciano a quelle di Albina ed Elisa, donne del Settecento, ricoverate nell’Ospedale degli Incurabili. È qui, in questo meraviglioso luogo della Napoli storica, che si svolgono gli eventi, quelli presenti e quelli passati. Federica è una storica dell’arte, donna curata nell’aspetto ma apparentemente dimentica delle emozioni più coinvolgenti, che presenta un progetto per il recupero di una zona dell’antico complesso. Maria è una sua amica di vecchia data, che incontra casualmente in un supermercato, molto diversa da lei, semplice al limite della sciatteria. È subito chiaro che hanno condiviso un periodo molto intenso della vita. Delle donne del passato appare per prima Albina. È una giovane esile, stramba, che non parla, ma canta di notte e che viene internata (tanto più crudelmente quanto più l’iniziativa è travestita da amorevole preoccupazione) dalla madre e dal marito, che non ne possono più e vogliono vivere la loro vita allegramente e senza pesi. Elisa, invece, più grande di lei, è un’ex-prostituta ricoverata nel reparto delle Pentite, dove trovano accoglienza in cambio di lavoro le donne come lei che non hanno più mezzi di sopravvivenza. Saranno condannate a una morte terribile e che pure non riuscirà a strappare loro quello che hanno di più prezioso, un legame che supererà il tempo. Come il pozzo dei pazzi, l’ospedale, la farmacia, la spezieria, come l’intero complesso degli Incurabili, che accoglie le storie di questo romanzo, e attraversa il tempo, fonde passato e presente e sembra, infine, appartenere a una dimensione altra, quella, forse, dell’anima umana.
Ciò che accomuna i quattro personaggi è l’essere vittime di violenza (familiare, sociale, maschile) e l’amore, che le abita e, infine, le salva.
Come si può amare il proprio carnefice? Come mai non si riesce a uscire dalle relazioni tossiche? Troppo facile pensare alla dipendenza economica e alla paura fisica (che pure esistono e sono importantissime) o al condizionamento sociale (che sempre dispiega la sua forza). Tutte queste cose hanno il loro peso, ma è il legame d’amore il vero nodo, là dove veleno e cura si avvinghiano, si intrecciano, si fondono. È qui che Francesca G. Marone affonda il suo scandaglio, senza paura, con acutezza di visione, sensibilità e delicatezza. Con una scrittura che diventa sempre più intensa e coinvolgente man mano che la storia procede, l’autrice ci racconta le emozioni delle quattro donne e il loro vissuto, ci fa sentire le loro sensazioni, ci descrive i corpi e le azioni, mette il dito nelle loro ambiguità e nelle loro paure, nelle loro ferite aperte.
Nel romanzo un altro personaggio accompagna lo svolgersi delle due linee temporali, viaggiando, a sua volta, su una terza linea: Giuseppe Mosca, dottore appassionato e umano, ispirato a Giuseppe Moscati, che pure tanto lavorò agli Incurabili. Personaggio che fa da contraltare a Lupo e Mastrogiorgio, i due uomini violenti, ma anche in qualche modo simmetrico ai personaggi femminili, in quanto anche lui ha una ferita d’amore che non si sana e che lo rende più fragile, ma più empatico. Sono suoi i versi che scandiscono il racconto e lo illuminano.
Romanzo prezioso, frutto di un lavoro di ricerca storica e psicologica non comune, scritto in una lingua ricca e precisa, ma cangiante, che spazia dal realismo all’onirico, al poetico.
E se è l’amore che porta al dolore e alla perdita di sé, è l’amore, quando significa libertà e coraggio di essere sé stesse, che alla fine riporta alla vita, all’ombra del grande albero di magnolia nel cortile dell’Ospedale degli Incurabili.
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