“Cassandra a Mogadiscio” di Igiaba Scego

(ed Bompiani)

di Mara Fortuna

“Amatissima, come si disegna la tua risata?”.

Così, con un potente richiamo al celeberrimo “Amatissima” di Toni Morrison, inizia il nuovo romanzo di Igiaba Scego, “Cassandra a Mogadiscio” (ed. Bompiani), entrato per direttissima nei magnifici dodici del Premio Strega 2023.  Dopo “La linea del colore” (Premio Napoli 2020) in cui la vita di una pittrice di colore veniva affiancata a quella di una giovane italo-somala, in cui già era ben presente il tema della diaspora dei Somali (e di quanti altri?), l’autrice con questo nuovo lavoro affronta senza mezzi termini il nocciolo duro: l’identità, l’appartenenza, la propria storia (e il suo inevitabile intrecciarsi con la Storia), spezzate e frantumate dalle guerre. Affronta il dolore generatore di quello che chiama Jirro, in somalo “malattia”, qui usato per indicare il grande male causato dalla guerra e dalla diaspora.

È un libro molto speciale, questo, che mette in crisi, e nel profondo, una italiana come me. Non si tratta solo di conoscere la Storia, di avere cognizione del colonialismo e coscienza che noi non siamo “i buoni”. C’è altro.

“L’italiano, la lingua di chi ha colonizzato i nostri antenati a Brava come a Mogadiscio, una lingua un tempo nemica, un tempo negriera, ma che ora è diventata, per una generazione che va da mia madre a me, la lingua dei nostri affetti. Dei nostri più intimi segreti. La lingua che ci completa nonostante le sue contraddizioni. Lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio, Elsa Morante e Dacia Maraini. Lingua di Pap Khouma, Amir Issaa, Leila Houssi, Takoua Ben Mohamed e Djarah Kan. Lingua un tempo singolare e ora plurale.”

Piccolo paragrafo, grande verità. Diciamocelo: chi, davvero, è consapevole di questo? Chi pensa alla letteratura italiana come a una letteratura plurale? L’italiano è per Scego, come per chi l’ha preceduta e chi la seguirà, la lingua dell’intimità, la lingua che ama e in cui scrive, la lingua in cui nella mente si formano i pensieri.  E tuttavia in questo romanzo, che è una lunga lettera alla nipote (Soraya Scego, interprete del ruolo di Waris Dirie – modella di origine somala – da bambina nel bel film “Fiore del deserto”), l’autrice non rinuncia al somalo. Ogni capitolo è titolato in entrambe le lingue, nella narrazione i nomi dei familiari, madre, padre, zii sono anche in somalo: primo tra tutti hooyo, mamma, e poi aabo, papà, edo, zia paterna, habaryar, zia materna, cioè piccola madre. E spesso alcuni termini o frasi sono riportati anche in somalo. Wallahi, te lo giuro. Harambaro, scarafaggi. Shaqo, lavoro. Così nella sua lingua del cuore, un italiano capace di accogliere la lingua dell’origine, ricama, come un arazzo, come uno dei coloratissimi maro che la madre cuce, la storia di famiglia e la sua propria.

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Il punto di partenza è il Capodanno 1990. Lei, adolescente, si sta preparando per andare alla festa con i suoi amici e aabo, guardando la tv, resta pietrificato: in Somalia è scoppiata la guerra civile. Lì si trova la madre, “l’unica ottimista in un paese in cui tutti erano diventati improvvisamente pessimisti. Lei credeva che la Somalia avesse un futuro”, scrive l’autrice. È andata, fiduciosa, a trovare la sorella. Da quel momento di lei per un anno non sapranno più niente, e Igiaba ne soffrirà fino ad ammalarsi, vomiterà tutto quello che mangia, il cibo, per lei, è diventato come le bombe e i kalashnikov, le armi che con il loro frastuono hanno inghiottito hooyo.

L’inizio della guerra civile, il suo dipanarsi, la distruzione completa della loro terra, di Mogadiscio, la città bianca, si intreccia al racconto del tempo precedente. Scego scrive del colonialismo e del periodo di Siad Barre, della fuga dei suoi genitori e di tanti altri, la diaspora. Improvvisamente poveri, sconcertati dall’accorgersi che l’Italia non è esattamente una patria, come l’avevano sentita, si ritrovano soli, lontani dai figli che hanno dovuto lasciare, dai parenti che, come quelli di tutti i rifugiati, sono sparsi sui cinque continenti, parlano lingue diverse, comunicano solo attraverso telefonate e video. È a questo punto che nasce Igiaba, all’inizio degli anni settanta, e abita in pensioni modeste, tristi, conosce le privazioni. Questo libro, però, non è solo la sua storia. È la storia del padre, che da diplomatico affascinante, esponente di rilievo del suo paese, precipita nella povertà e nell’invisibilità, lontano dai suoi figli. È la storia della madre, che da bambina cresce nella boscaglia curandosi dei dromedari, poi arriva a Mogadiscio, passa attraverso la tortura dell’infibulazione (una pratica orribile e domestica, abituale, che la zia si affretta a far eseguire per far un piacere alla madre), impara a leggere, sposa aabo e infine lo segue nell’esilio, percorre la sua stessa parabola. Hooyo, che ricama arazzi e che vuole raccontare a Soraya la sua storia, la storia della famiglia, ma non può farlo, non hanno lingue in comune. E chiede a Igiaba.

Ecco la struttura del romanzo. Igiaba scrive a Soraya per raccontare ciò che hooyo racconta. La madre, le sue parole, sono l’archivio storico che l’autrice consulta e interroga continuamente. In Somalia gli archivi sono bruciati, non è rimasto niente, dice. Resta solo la testimonianza orale. Tutto il romanzo, tutta la ricostruzione storica, si basa sull’oralità. E cosa sente Scego scrittrice rispetto a questo? “…i nostri antenati non hanno conosciuto la lingua scritta e non penso che chi ha le risorse e l’istruzione per imparare a scrivere sia migliore degli altri: ma vi ringrazio di avermi fatto dono di questo strumento invisibile e potente, perché tramite esso canto la nostra gente.”

“…l’autobiografia è affascinante per il suo costruirsi in costante movimento. Il passato non è mai fermo, segue i nostri cambiamenti”, scrive Scego nei ringraziamenti. E questo vale per tutti. Perché, alla fine, ci si accorge che quella che si è letta non è solo la storia degli Scego. È anche la nostra.

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